Ode alla Parresia

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In questo tempo presente, le parole mi inquietano. Percepisco che sono tante, troppe, anche se quelle che entrano dentro per abitarmi le scelgo. Non voglio abituarmi alle parole, avverto che ne siamo sommerse, sommersi, tanto da far fatica a discernere se sono vere o no, se emergono dagli interstizi del mondo profondo di ciascuno, o se nascono già come cenere e si dissolvono come minuscoli pulviscoli nell’etere. Se provengono dalla visione o dall’imitazione; se sono libere o se qualcuno le ha già comprate. L’essere umano ha faticato tanto per imparare a parlare. Le prime parole erano di stupore, subito dopo vennero quelle d’amore e via via quelle che fiorivano dal complesso mondo delle relazioni. E poi e poi, tutte le parole si articolarono con il pensiero, si misero d’accordo e: si arrivò al linguaggio. Le parole non fluivano più liberamente, il pensiero le gestiva. E qui è il problema; come gestiamo le nostre parole? Perché le lasciamo andare, perché le vogliamo esprimere o trattenere? A chi servono, a cosa servono, come mai non sono più libere? Eppure, oggi le parole si sono moltiplicate e grazie al mondo tecnologico le troviamo ovunque, in abbondanza, come in un supermercato. Se non le troviamo le aspettiamo, sicuri che arriveranno puntuali, magari nei telegiornali e, il giorno dopo, scolpite sulle pagine dei periodici. Nonostante tutta questa abbondanza di parole, io ho ancora molta sete. Allora mi fermo e in assoluto silenzio discerno; prendo ancora le parole, una ad una e le scelgo. Mi domando che cosa voglio da loro, perché le cerco, le dico e le scrivo. Tra le mie mani appare improvvisamente una P, una A, una R e poi ancora una R e poi una E, poi una S, una I e infine ancora una A. Queste lettere tuttavia mi inquietano, le metto in ordine: “PARRESIA”. Allora comprendo: è questo che voglio da loro, è proprio questo. Se le parole vengono a me è solo perché cresca questa virtù, così la chiamavano i greci. Non frapporre filtri, non deformare le parole per paura, né per convenienza, ne perché qualcuno ci applauda. Parole che stanno in piedi da sole, perché hanno radici profonde e servono per mettere luce sul buio e non viceversa come accade tante volte nella nostra vita privata e tantissime in quella pubblica. Ode dunque alla parresia, virtù di chi sa di essere cittadina o cittadino. Ode alla parresia delle parole luminose e trasparenti, prive di inutili orpelli, umili e determinate. Quelle parole che sulle labbra bruciano (cfr. Is 6,6); quelle parole che fluiscono anche dagli occhi e mentre consolano i più impauriti e deboli, soffocano i prepotenti e chi si crede gestore della vita degli altri. Perché la parresia è virtù di chi non nasconde il suo amore per il bene comune.

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